Un importante volume di Francesco Tigani Sava sul massone calabrese Antonio Jerocades da Parghelia è stato pubblicato a cura della casa editrice Sensazioni Mediterranee Srl di Catanzaro (collana Le Storie). L’avvincente personaggio, analizzato dall’autore in tutta le sue versatili sfaccettature, conserva nelle pagine del Tigani Sava un notevole fascino, nonostante le numerose ombre che ancora oggi offuscano la sua persona per vicende nelle quali rimase coinvolto in alcuni difficili passaggi della sua inquieta esistenza. Non è quindi strano, né inverosimile, se, ricostruendo le vicende della sua avventurosa vita e i suoi multiformi rapporti con potenti personaggi del tempo e ancor più con le difficili congiunture storiche nelle quali ebbe spesso dei ruoli non del tutto marginali, l’esuberante abate venga esaltato di volta in volta come fedele pastore della Chiesa e condannato nello stesso tempo per il suo radicale anticlericalismo, salutato come “il bardo della massoneria” e malvisto da vasti settori della stessa setta per la sua devianza dai tradizionali canoni non contaminati da istanze rivoluzionarie e sovvertitrici, ritenuto, per sua stessa ammissione più volte sottoscritta, devoto suddito di Ferdinando di Borbone e sostenitore dell’istituzione monarchica come unica forma di organizzazione politica in grado di dispensare giustizia e benessere ai popoli e manifestamente sorpreso a sostenere la validità degli ideali repubblicani di matrice francese, ma pur sempre, alla fine, giacobino e antiruffiano nel 1799 fino al punto da pagare col carcere e l’esilio la coerenza ai suoi ideali di libertà e a dover piangere per il sangue versato sul patibolo da alcuni suoi stretti famigliari condannati a morte dal governo borbonico. Processato più volte, più volte rinchiuso in carcere, esule in Francia, sempre in contrasto per motivi economici con gli stessi suoi famigliari, amico di potenti personaggi laici ed ecclesiastici, ma anche odiato e perseguitato dalle varie gerarchie sacre e profane, non riuscì mai a far parte, se non in modo occasionale, di un gruppo politico omogeneo preferendo giocare le carte di una vita abbastanza travagliata da esasperato individualista.
Questo antesignano dei fermenti antiborbonici e anticlericali che avrebbero caratterizzato, alcuni decenni dopo i tragici avvenimenti del 1799, i primi moti risorgimentali, nacque nel 1738 a Parghelia, piccolo casale di Tropea, da Andrea, buon pescatore e sfortunato mercante, e dalla sua seconda moglie, la saggia e infelice Antonia Pietropaolo. Ebbe due fratelli, Vincenzo, col quale sarà sempre in conflitto per motivi di interessi economici, e Domenico morto nelle lontane Antille dove si era recato per fare fortuna. Una sorella era andata sposa a F. Mazzitelli, che assieme al fratello Antonio era titolare di una sorta di agenziadi spedizioni a Marsiglia città nella quale il Jerocades verrà iniziato ai misteri massonici. Il padre Andrea, per dare prestigio alla famiglia, destinò Antonio alla carriera ecclesiastica per cui lo mandò a studiare presso il seminario della vicina Tropea, dove fra i molti valorosi insegnanti il Jerocades poté conoscere ed apprezzare Andrea Serrao, il futuro vescovo di Potenza trucidato dai sanfedisti nel 1799. Dal Seminario, dove il Jerocades mostrò viva intelligenza negli studi e sincera devozione alla Chiesa, iniziò ben presto anche una corrispondenza epistolare col celebre Antonio Genovesi. La scelta del padre non era piaciuta tuttavia ad Antonio che, diversi anni dopo, in una sua autobiografia considerata finora inedita e che Francesco Tigani Sava ripubblica per la prima volta in questo sua opera, dichiara con molta amarezza di non aver mai accettato la scelta del padre in contrastocon i suoi “pregiati diletti” che erano “il corso e la caccia, il nuoto e la pesca, talché, odiando implacabilmente la scuola e il maestro, vivea più volentieri nei monti e nei lidi”. Nel seminario di Tropea, ricevuti gli ordini sacerdotali, fu protagonista di uno scandalo che coinvolse i dirigenti dell’Istituto, lo stesso vescovo e il corpo insegnante. Accusato di sodomia con i giovani allievi,fu costretto a lasciare immediatamente Tropea per evitare un processo che in verità nessuno voleva venisse celebrato per non rendere di pubblico dominio episodi di malcostume che non giovavano certo al buon nome del seminario.
Confidando nel sostegno di Andrea Serrao e sull’aiuto di Antonio Genovesi, abbandonò i progetti culturali ideati per offrire ai giovani di Parghelia una formazione culturale alternativa a quella fornita dalla Chiesa e si rifugiò a Napoli dove pare sia stato ospite per qualche tempo dello stesso Genovesi che gli offrì l’occasione di frequentare le sue lezioni e di conoscere altri allievi che presto sarebbero diventati famosi nel campo degli studi e della politica. A Napoli partecipò attivamente alla battaglia anticuriale di quegli anni a favore della quale scrisse un opuscolo sull’inopportunità di mantenere il vita il rito della “chinea”, l’annuale atto di omaggio richiesto dal Papa al Re. Sollecitato dal Genovesi pubblicò a Napoli nel 1768 il noto Saggio dell’umano sapere ad uso de’ giovanetti di Paralia, un vero e proprio progetto pedagogico innovativo nel campo della pubblica educazione dei giovani del Regno. Nel Saggio, definito dal Croce “vicheggiante”, il Jerocades proponeva infatti un piano di educazione per i figli dei contadini e dei commercianti che considerava, contro il conformismo e il casismo delle scuole ecclesiastiche, fondamentale lo studio della storia, della matematica e delle lingue. Nel 1767 il Genovesi gli procurò un posto di insegnante di “ideologia” presso il collegio Tuziano di Sora dove esercitò il suo incarico per ben tre anni sempre guidato dalla saggia parola del grande maestro che lo sollecitava “di non dar luogo alla calunnia, benché falsa che possa essere, imperciocché la maggior parte degli uomini non cura d’informarsi della verità delle cose e non si giudica che sopra il rumore comune”. Ma l’ancor giovane abate non era sempre permeabile ai saggi consigli e nel 1770 si trovò per la seconda volta coinvolto i forma abbastanza grave in un altro scandalo da lui fatto scoppiare nello stesso Collegio che lo ospitava.
Nel corso dei festeggiamenti per il Carnevale di quell’anno appunto, egli compose un Intermezzo, intitolato Pulcinella da quacchero, che fu recitato dagli allievi nell’intervallo di una composizione drammatica, e che, secondo D. Martuscelli, aveva avuto una prima redazione, mai apparsa in pubblico, intitolata Pulcinella fatto principe, con palese sarcastico riferimento a Ferdinando IV che nel suo Regno aveva, sosteneva il quacquero, meno autorità di un semplice prete. L’intermezzo non piacque al vescovo di Sora che pretese l’immediata sospensione del Jerocades e del rettore che aveva autorizzato lo spettacolo. Allo scandalo provocato dalla recita si aggiunsero nel corso dell’inchiesta le già note accuse di sodomia e di corruzione dei giovani. Fu richiesto l’intervento di Bernardo Tanucci e fu aperta una “discreta inchiesta” su una vicenda resa complessa dai contrasti di natura giurisdizionale tra autorità statale ed ecclesiastica. Valutato il rischio di essere sottoposto a processo per il reato di lesa maestà e di oltraggio alla religione cattolica, il Jerocades, prima che l’indagine si chiudesse, fuggì da Sora e si rifugiò a Napoli. Nel 1771, dopo una breve sosta in Calabria e a Messina, raggiunse Marsiglia dove fu bene accolto da alcuni suoi parenti (i Mazzitelli) e introdotto nelle logge massoniche locali, nell’ambito delle quali stabilì quei proficui contatti che col tempo si sarebbero trasformati in piena ed entusiastica adesione alla massoneria. Al rientro da Marsiglia soggiornò brevemente a Roma, quindi accettò di rientrare a Sora per un periodo di “correzione” e di “quasi carcere” che, sotto la sorveglianza speciale del vescovo, si protrasse per un paio di anni, trascorsi i quali il Jerocades tornò a Napoli. Qui aprì una scuola privata di filosofia e archeologia, molto frequentata. In sempre più stretto contatto con i circoli massonici, strinse rapporti di amicizia con molti intellettuali progressisti condividendo appieno i loro programmi politici. In questi anni, soprattutto nel periodo trascorso nel 1775 nella terra natia, Jerocades compose numerose opere poetiche destinate a confluire nelle raccolte stampate successivamente, a cominciare da Gli amori di Fileno e Nice (Napoli 1777) e da Le parabole dell’Evangelio. Parafrasi (ibidem, 1782).
I miti antichi e le parabole sono la veste allegorica con la quale il Jerocades riveste il suo maggiore impegno: la diffusione del verbo massonico. A Napoli nel 1783, pubblicò la prima edizione della Lira focense; e il Paolo o dell’umanità liberata (Napoli 1783). La Lira focense deve il suo titolo alla ripresa della tradizione secondo la quale i Focensi, esuli, avrebbero fondato colonie a Marsiglia e a Parghelia, accomunate nella adesione alla massoneria. Nelle liriche in essa raccolte il Jerocades esprime con un linguaggio in codice la sua visione di una umanità destinata a una vita armoniosa e serena, fondata sull’amicizia, la “fratellanza”, la libertà nell’ambito di una natura che eternamente ripete il suo ciclo vitale e distruttore. II catastrofismo millenaristico del Jerocades parve tragicamente confermato dal terremoto che si abbatté sulla Calabria nel 1783. Colpito nei suoi affetti, offeso dal comportamento della Chiesa che a suo giudizio speculava sull’immane tragedia ricattando la buonafede del volgo ignorantecon mille spregevoli favole circa la dannazione eterna, conquistato dalla serenità dei massoni che di fronte al flagello non trovavano rifugio nei riti celebrati nelle chiese ma nella ragione illuminata dal sacro fuoco della libertà, il Jerocades scrisse un’anomala, scandalistica operetta che intitolò Il terremoto del Capo (1783), nella quale attaccò con violento sarcasmo il capitolo di Tropea e l’interpretazione del disastro come castigo divino per le colpe degli uomini, cui il volgo risponde con vane preghiere. Anche quest’opera che destò subito scandalo e sollecitò adeguate risposte da parte di intellettuali reazionari quali soprattutto l’abate Spadea e l’abate Muscari che scagliarono contro il Jerocades scritti velenosissimi, fu ritenuta da sempre inedita fino a quando il Tigani Sava ebbe l’opportunità di accedere ad una copia a stampa fornitagli dal prof. Meligrana che riproduce in modo integrale in questo suo saggio edito per Sensazioni Mediterranee Srl.
Nel 1784 Antonio Jerocades si recò per la seconda volta a Marsiglia dove intensificò i rapporti con le logge massoniche locali nell’ambito delle quali rafforzò i suoi propositi di proselitismo nel Regno di Napoli. Scrisse in questi anni opere che hanno come unico fine l’esaltazione degli ideali massonici (Codice delle leggi massoniche ad uso delle logge forensi; Inni di Orfeo esposti in versi volgari; Gl’Inni della Chiesa romana esposti in versi volgari; Le Odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari e tante altre ancora). Questi anni furono, per il Jerocades, densi di avvenimenti e di nuove esperienze culturali. A Napoli continuò a frequentare assiduamente Francesco Conforti, Domenico Cirillo, Mario Pagano e quella folta colonia di giovani calabresi dimoranti nella capitale del Regno per motivi di studio. Ebbe frequenti contatti con Francesco e Domenico Grimaldi, entrò in contatto, attraverso canali non sempre facilmente documentabili, con Leone Luca Rolli, Saverio Mattei, Domenico Cavallari, Domenico Malarbì, Gregorio Aracri, Pier Giovanni Salimbeni, Vincenzo de Filippis, Francesco Saverio Salfi, Giuseppe Spiriti, Nicola Zupo, Domenico Bisceglia ai quali lo univano anche i nuovi principi massonici che egli andava divulgando in Calabria e a Napoli. Si accostò, con la solita esuberanza, alla pubblicistica anticuriale e si applicò nello studiò del Vico recepito, come si evince dalla lettura di qualche sua opera “vicheggiante” per dirla con il Croce, non in tutta la innovatrice profondità del suo pensiero, ma in modo superficiale, come superficiale era stata la sua adesione alla polemica anticuriale, che per il Jerocades, cui probabilmente sfuggi il profondo significato politico dell’annosa polemica, si ridusse ad uno sterile anticlericalismo disseminato a piene mani in tutta la sua produzione letteraria. Più intensamente vissuta fu invece la sua esperienza massonica che, almeno in un primo tempo, recepì sotto il profilo mondano ed esteriore con la conseguente conformistica devozione al re e al pontefice, anche perché solo più tardi, non prima comunque del 1783, il Jerocades sull’esempio di quanto avveniva nella massoneria di Marsiglia con la quale ebbe sempre frequenti contatti, cominciò a rigettare in parte i simboli e l’esoterismo della setta che in Francia e in Italia andava trasformando, sotto la spinta dell’esperienza giacobina, le antiche logge in attive associazioni rivoluzionarie e cospirative.
Il Jerocades si convertì al nuovo corso e divenne il profeta della massoneria meridionale. L’attività massonica del Jerocades, almeno per quanto concerne l’azione da lui esercitata in Calabria, va considerata tenendo nel debito conto che la setta già da tempo, per opera soprattutto di Pasquale Baffi, aveva messo profonde radice nel tessuto sociale di quasi tutta la regione. La sua missione di organizzatore di logge fu proficua e capillare al punto che il De Medici, inviato nel 1790 in Calabria dal Governo per riferire anche sui fermenti politici più o meno latenti in tutto il paese, constatò con un certo disappunto che anche i più piccoli centri, per l’opera di proselitismo del Jerocades, pullulavano di massoni. È anche vero che negli anni dell’idillio tra gli intellettuali riformatori e la Corte, gli anni in cui si visse la grande illusione della rigenerazione della società meridionale condotta sul doppio binario della lotta antifeudale e anticuriale, il Jerocades poté sfruttare a tutto vantaggio dell’organizzazione settaria l’interessato paternalistico appoggio della Corte che solo più tardi farà marcia indietro e perseguiterà quei massoni che, avendo abbandonato gli innocui riti e la vieta simbologia, si erano convertiti ai principi rivoluzionari di matrice francese. Prima del 1790, il Jerocades poté quindi, con una certa sicurezza, attaccare i numerosi nemici che si annidavano tra il clero calabrese. Il fervore rivoluzionario, subentrato alla cocente delusione della ormai constatata impraticabilità del gradualismo riformista, costrinse il Jerocades a uscire, come tenti altri, dalla colposa ambiguità nata dall’illusione di poter sconfiggere, con l’appoggio del sovrano, le resistenze frapposte al processo di rinnovamento della società meridionale da quelle forze che, seppure in declino, potevano ancora, sfruttando il timore della monarchia per i rivolgimenti di Francia, trovare con essa un terreno di intesa per una compromissoria alleanza. La sua indole combattiva e caparbia, il vivo desiderio di forzare la mano per imporre comunque quel processo di rinnovamento politico e culturale di cui la società meridionale avvertiva pressante il bisogno, spinsero il Jerocades a varcare i limiti della più elementare prudenza. Nel 1792 fu tra coloro che brindarono alla libertà sul vascello francese Languedoc ancorato, sotto il comando dell’ammiraglio francese La Touche-Trèville, nel porto di Napoli. Anche in quella occasione il Jerocades, come del resto tanti altri giacobini napoletani, non seppe cogliere il valore politico della missione affidata al La Touche-Trèville il quale aveva il compito di evitare una radicale rottura tra la Francia e Napoli e di spingere il governo di quest’ultima ad assumere una posizione più morbida servendosi, come deterrente, anche degli entusiasmi dei giacobini locali.
Nonostante la sua aperta adesione ai principi rivoluzionari francesi, i giovanili errori e la cattiva fama che si era procacciata con i suoi a volte strani comportamenti, nel 1792 Antonio Jerocades, per una serie di circostanze di difficile decifrazione, fu chiamato ad insegnare nell’Università di Napoli in sostituzione dell’amico massone Troiano Odazi che di lì a poco sarebbe rimasto coinvolto nella congiura giacobina e morto suicida (si dice) in carcere. Già “Professore onorario di Filologia” nella stessa Università, il Jerocades accettò il nuovo incarico, una sorta di supplenza, che durò pochi mesi. All’inaugurazione dei corsi di studio, egli lesse un’orazione che più tardi pubblicò col titolo Orazione per l’apertura della Scuola di Economia e Commercio dedicandola a Sua Eccellenza il Signor Marchese D. Ferdinando Corradini Segretario di Stato, e Presidente delle Finanze. Anche questo scritto fu da sempre ritenuto inedito dagli studiosi del Jerocades. Oggi il Tigani Sava, avvalendosi della liberalità del prof. Meligrana che parecchi anni fa gli ha fornito copia del testo a stampa, ha pensato, vista l’importanza dell’operetta, di rieditarla a corredo di una esaustiva analisi critica dell’Orazione. Anche in questa circostanza, Antonio Jerocades restò, come si suole dire, nel guado. Accettò l’incarico universitario ed elogiò nella sua Orazione il re Ferdinando e tutte le istituzioni monarchiche in generale, nel mentre da cospiratore dava il suo contributo alle organizzazioni sovversive che agivano, più o meno segretamente, a Napoli e nel Regno. Alla fine, denunciato per il reato di lesa maestà, attività sovversiva, diremmo oggi, ed altri gravi reati, il Jerocades fu arrestato e privato ovviamente dell’insegnamento. Dopo l’arresto del Jerocades “ricoprì la cattedra come sostituto il sac. D. Domenico Genovese sino al 1797, quando, bandito il concorso, essa fu attribuita a Michele Jorio”.
Il Jerocades fu quindi tra le prime vittime delle purghe degli anni 1793-95 anche se la pena inflittagli, l’esilio nel Convento dei Padri Giurani a S. Pietro a Cesarano presso Mugnano del Cardinale, per un diabolico disegno degli inquisitori, non fu proporzionata alla sua attività cospirativa quale risulta dai famosi Notamenti redatti dalle Giunte di Stato. Da questi documenti si evince anche che il Jerocades – se meritano fede gli atti redatti dai tribunali speciali – con le sue dichiarazioni compromise alcuni compagni di fede: per dirla in modo più chiaro, tradì per evitare guai peggiori. Un’accusa tremenda per un cospiratore la cui attivitàera nota in tutti gli ambienti rivoluzionari del Mezzogiorno d’Italia e tra i massoni francesi. In seno al movimento non tutti però accettarono la tesi del tradimento del «bardo della massoneria» e avanzarono il sospetto che le confessioni gli fossero state strappate con la violenza. Un fatto è certo: dagli stessi Notamenti e da altre fonti spesso frettolosamente consultate, si evince che il Jerocades rivelò circostanze e fece nomi di personaggi che tutti, e soprattutto la polizia borbonica, già da tempo conoscevano tanto palesi e notori erano stati i rapporti tra i cospiratori, tanto ingenuo ed approssimativo il loro programma rivoluzionario al punto che, un arguto diplomatico veneziano, nel relazionare al suo governo sull’andamento del processo contro i giacobini, con sottile ironia, definì la congiura una «impresa cavajuola» ridicolizzando inquisiti ed inquisitori. Succede però che un antagonismo di parte spesso ci induce a non considerare in modo obiettivo l’organizzazione poliziesca borbonica e tanto meno i sottili giochi di potere che anche i Borboni erano in grado di realizzare. Essi avevano capito che non bastava avere arrestato e processato i giacobini, ma occorreva anche intervenire con altri strumenti per fiaccare il movimento in modo traumatico. E il mezzo migliore fu quello di tenere in vita i cospiratori più noti e carismatici trasformandoli però in spie e delatori. A tale scopo venne infatti divulgato un bando contenente l’elenco completo degli inquisiti «sponte confessi», venne assegnato un assegno mensile ai «delatori» mandati spesso, è il caso del Jerocades, a scontare la pena in ambienti su cui gravavano pesanti sospetti. Il Jerocades verrà esiliato in S. Pietro a Cesarano nel Convento dei Padri Giurani che figuravano fra gli inquisiti per lesa maestà nel 1794. Il nostro abate riprese la sua attività politica a S. Pietro a Cesarano dove, stipendiato dalla Corte, altra finezza, strinse rapporti di amicizia con i giacobini del luogo, piantò l’albero della libertà nel ’99, salutò con un’orazione piena di accenti patriottici il drappello repubblicano guidato dal calabrese Agamennone Spanò che passava per le terre di Cardinale mentre era in pieno svolgimento la campagna militare del cardinale Ruffo. Partecipò, ma a questo proposito non vi è unanimità tra i testimoni, alla battaglia del Ponte della Maddalena e venne rinchiuso, in seguito alla vittoria dei borboniani, nel tremendo carcere dei Granili dove ebbe tra i compagni di sventura Gaetano Rodino e Guglielmo Pepe. Nel 1800 venne esiliato a Marsiglia dove rimase circa un anno. Rientrato a Napoli, fu successivamente segregato nel Convento dei Padri Liguorini di Tropea dove si spense nel 1803.
IL LIBRO
Francesco Tigani Sava
Antonio Jerocades, massone e giacobino (1738-1803)
Edito da: Sensazioni Mediterranee Srl
pp. 368 + Copertina a colori (volume cucito filorefe e brossurato)
Prezzo euro 25,00 (Iva compresa)
Per la edizione del volume si ringrazia il Gruppo Pubbliemme: http://www.gruppopubbliemme.it
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